Ecco come lo Stato italiano affrontava il problema dei clandestini fino all’ottobre del 1975 e quale considerazione avevano degli stranieri i giornalisti dell’epoca.
La-Dea-della-Giustizia

Molto sinteticamente, nel lontano autunno del 1975 avendo appreso che a bordo della m/v Italmare, nave diretta nel porto di Taranto con un carico di carbone destinato all’Italsider, c’erano due clandestini un Vice Questore responsabile della Polizia di frontiera ordinò al Comandante di quella nave di collocare un lucchetto in una cabina, privando di fatto della libertà due giovani senegalesi, fuggiti entrambi da un campo di concentramento in Mauritania ed aventi quindi diritto alla protezione internazionale perché profughi.

La nave rimase nel porto di Taranto appena poche ore ed ultimata la discarica del carbone, riprese la navigazione verso gli Stati Uniti, sicchè non fu possibile risolvere la grave situazione che si era creata per una palesata intransigenza dell’Autorità italiana.

Prima di giungere a New York, porto di destino, uno dei due ragazzi preferì gettarsi in mare per evitare di fare rientro in Mauritania, dove la nave avrebbe finito il suo viaggio dopo un altro approdo nel porto di Taranto e di lui non si seppe più niente.

Occorre evidenziare che all’epoca, come anche ai tempi nostri esiste una faida sanguinosa tra il Senegal e la Mauritania e che se i due giovani senegalesi avessero fatto ritorno in Mauritania il loro destino sarebbe stato tragico, dal momento che la punizione adottata per chi scapava dai campi era quella della morte a colpi di bastonate.

Un giovanissimo Avvocato di 27 anni, pieno di ideali ed ingenuamente fiducioso nella giustizia, su incarico del P&I Club, cui era associata la nave (i P&I Clubs sono associazioni mutualistiche specializzate in coperture assicurative a favore degli armatori propri associati) si recò subito a bodo della nave Italmare per risolvere il caso.

Tuttavia, dinnanzi alla proposta di far sbarcare il profugo per farlo accompagnare, sotto scorta fino a Roma per consentirgli di scegliere una destinazione da raggiungere con un aereo di linea, il tutto a spese del P & I Club, il responsabile della sicurezza del Porto fu irremovibile, invocando l’art. 152. (art. 153 t. u. 1926) oggi non più in vigore, dove c’era scritto: i Prefetti delle provincie di confine possono, per motivi di ordine pubblico, allontanare, mediante foglio di via obbligatorio, dai comuni di frontiera, nel caso di urgenza, riferendone al ministro, gli stranieri di cui all’art. 150 e RESPINGERE DALLA FRONTIERA GLI STRANIERI CHE NON SAPPIANO DARE CONTEZZA DI SÈ O SIANO SPROVVISTI DI MEZZI. PER GLI STESSI MOTIVI”.

Risultata vana ogni mediazione o trattativa, per trovare una possibilità di far sbarcare lo sfortunato giovane e salvargli la vita,  si fece ricorso alla immediata redazione di un esposto querela dove veniva scritto che il comandante della nave dopo la scoperta a bordo del clandestino lo aveva arrestato avvalendosi dei poteri di polizia che gli sono attribuiti quale capo della spedizione marittima e che, giunto nel primo porto di approdo della nave, intendeva depositare la querela per truffa aggravata ed altro e nel contempo procedere, come era tenuto, alla consegna alle Autorità italiane del prigioniero.

Il responsabile del Porto si rese disponibile a ricevere e far ratificare la querela a firma del Comandante, ma rifiutò sia la consegna del prigioniero, che la rimozione dei lucchetti per consentire che il senegalese rimanesse almeno libero a bordo e potesse fuggire, ma anche tale proposta non incontrò il gradimento dell’interlocutore, sicchè, non essendoci altre vie percorribili per la salvezza del ragazzo, quel giovane Avvocato si recò presso le redazioni dei giornali locali per rappresentare l’anomalia di una “sequestro di persona” a bordo della nave italiana “Italmare”.

Il giorno successivo i giornali locali riportarono la notizia in chiave narrativa e con una certa ilarità, senza evidenziare la gravità della situazione e la violazione della legge.

Sempre quel giovane Avvocato si recò il giorno 14 ottobre 1975 presso la Procura della Repubblica di Taranto dove rappresentò al titolare dell’ufficio che la fattispecie rientrava nell’ipotesi del sequestro di persona in quanto il senegalese era stato illecitamente privato della libertà e si trovava prigioniero a bordo della m/v Italmare, ma inaspettatamente quel Procuratore capo dichiarò che “il reato di sequestro di persona non era di sua competenza” e disse che sarebbe stato possibile rivolgersi al consigliere Pretore, cosa che, quell’Avvocato fece, nonostante le ovvie perplessità circa la incompetenza per materia, riuscendo nello spazio di meno di un’ora a convincere quel Giudice a fare un accesso a bordo per verificare la veridicità di quanto stava denunciando, assumendosene tutte le conseguenti responsabilità.

Prima di recarsi a bordo per l’ispezione, il Pretore per correttezza istituzionale, si fermò presso l’Ammirragliato della Marina Militare del porto di Taranto per comunicare all’Ammiraglio responsabile che doveva essere fatto un accesso a bordo della nave Italmare attraccata alla banchina del porto industriale e quest’ultimo riteneva a sua volta corretto contattare il responsabile della Polizia di Frontiera, il quale, respingendo categoricamente la circostanza di aver ordinato al comandante della nave di collocare un lucchetto in una cabina a bordo dove veniva tenuto prigioniero il senegalese, rispose testualmente: “NON E’ VERO, E’ SORVEGLIATO A VISTA A NORMA DI REGOLAMENTO”.

Eseguita l’ispezione a bordo, inspiegabilmente il senegalese venne trovato libero a bordo, circondato da quattro agenti di pubblica sicurezza, la cabina dove era stato imprigionato era priva di lucchetto e la porta di ingresso alla stessa non presentava segni della precedente esistenza di un lucchetto e di due anelli, essendo stata opportunamente stuccata e dipinta.

Il personale di bordo (Comandante, primo ufficiale, secondo ufficiale, nostromo) gli stessi che in precedenza avevano implorato il giovane Avvocato di trovare una soluzione per salvare la vita al senegalese, interrogati dal Giudice, negarono la circostanza del sequestro di persona ordinato a bordo dalle Autorità italiane e soltanto l’ufficiale di macchina disse come realmente stavano le cose.

Rientrati in ufficio, bastò uno sguardo tra quel giovane Avvocato e quel Pretore diligente e comprensivo per intuire, senza parole quello che era successo in spregio del diritto e della giustizia.

Il giorno successivo ci fu una riunione cui parteciparono i vertici della magistratura di Taranto, il Prefetto ed il Questore di Taranto per decidere se si doveva punire quell’Avvocato che aveva osato sfidare il potere e quindi denunciarlo per simulazione di reato o per calunnia, o stendere un pietoso velo su tutta la vicenda e prevalse la seconda soluzione.

Sta di fatto che dopo qualche mese si verificò un nuovo caso di clandestini a bordo di una nave, ma da quella volta le cose cambiarono, infatti lo stesso Avvocato ebbe la soddisfazione di vedere che veniva finalmente adottato lo stesso corretto iter procedimentale che prima aveva inutilmente invocato.

Nell’occasione non ci fu nessuno arresto, o sequestro di persona, ma un funzionario dell’Onu si recò a bordo della nave dove si era imbarcato il clandestino e alla presenza dell’Avvocato, ancor giovane, del responsabile della sicurezza del Porto e del Comandante della nave, si procedette ad un rapido esame del “clandestino”, alla sua identificazione ed al trasferimento presso l’Ambasciata dello Stato cui apparteneva per consentire il suo trasferimento dove egli desiderava andare.

Questi i fatti di una storia realmente vissuta, questa la sensibilità mostrata da qualcuno e la totale insensibilità, chiusura ed intransigenza di altri.

Stupisce oggi sentire parlare di ipotesi del reato di “sequestro di persona” a carico dell’ex ministro Matteo Salvini, sotto una spinta mediatica ed un accanimento giudiziario in una situazione che non riveste gli stessi connotati della precedente in cui vi era una cabina con un lucchetto ed “il clandestino” era trattenuto a bordo della nave prigioniero contro la sua volontà, senza alcuna possibilità di uscire neanche sul ponte della nave.

Pur in presenza di un cambiamento dei modi di percepire le cose, dell’aumento dell’influenza dei media sulle opinioni delle persone, secondo la concezione tripartita un reato è un fatto umano, tipico, antigiuridico e colpevole costituito da un elemento oggettivo, che è il fatto che si scinde nei due giudizi di tipicità e antigiuridicità.

In un’ottica del genere la corrispondenza tra fatto concreto e fattispecie astratta di reato è solo un indice della sua rilevanza penale perché IN SECONDA ISTANZA IL GIUDICE DOVRÀ VERIFICARE SE IL FATTO COMMESSO NON SIA STATO COMPIUTO IN PRESENZA DI UNA CAUSA DI GIUSTIFICAZIONE.

NEL CASO DELLA VICENDA DELLA NAVE GREGORETTI, IL COMPORTAMENTO TENUTO DA MATTEO SALVINI NON RIENTRA NELLA TIPICITÀ DEL SEQUESTRO DI PERSONA E NELLE DENEGATA IPOTESI IN CUI VI RIENTRASSE, NON SI PUÒ PRESCINDERE DALL’APPLICAZIONE DELLA SCRIMINANTE DELL’ADEMPIMENTO DI UN DOVERE IN QUANTO HA OPERATO NELL’ESERCIZIO DELLE SUE FUNZIONI A GARANZIA DELLA SICUREZZA.

 

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