Gli Italiani ed il referendum istituzionale del 2 giugno 1946
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Gli Italiani ed il referendum istituzionale del 2 giugno 1946

Oggi impropriamente viene affermato da più parti che si celebra l’anniversario della proclamazione della repubblica.

In realtà siamo in presenza di due inesattezze, o, meglio, di due falsi storici, in quanto il 2 giugno è solo la data in cui ebbero inizio le consultazioni referendarie che si protrassero fino al giorno successivo e la Repubblica non venne mai proclamata.

Sono trascorsi ormai 78 anni da quel referendum ed è quindi possibile analizzare con il dovuto distacco, ma non senza il dovuto rigore giuridico che il rispetto per la verità storica ci impone, gli eventi ed i fatti prodromici alla nascita della Repubblica.

Il 9 maggio 1946 il Re Vittorio Emanuele III abdicò in favore di suo figlio, Umberto di Savoia Principe di Piemonte, il quale già dal giugno del 1944 era stato designato Luogotenente generale del Regno, con funzioni di capo dello Stato, senza tuttavia rivestirne interamente il ruolo.

In tale veste istituzionale Umberto firmò il decreto legislativo luogotenenziale n.151/1944 con cui si stabiliva che dopo la liberazione del territorio nazionale, attraverso un suffragio diretto, segreto ed universale, esteso per la prima volta anche alle donne, il popolo italiano avrebbe scelto la forma istituzionale ed eletto un’Assemblea Costituente perché deliberasse una nuova Costituzione.

Divenuto Capo dello Stato, Umberto II rivolse il suo primo messaggio agli italiani nel quale ribadì quanto già sancito nella precedente veste di luogotenente in ordine alla sua determinazione di rimettere alla volontà del popolo la decisione sulla forma e nuova struttura dello Stato.

Pochi giorni dopo, nel proclama del 31 maggio, Umberto II, affermò tra l’altro che avrebbe accettato il responso del popolo liberamente espresso e chiesto ai “fedeli sostenitori della Monarchia di rispettare anch’essi, senza alcuna riserva, la decisione della maggioranza.” Aggiunse inoltre che, in caso in cui avesse prevalso una maggioranza in favore della Monarchia, si sarebbe impegnato, una volta che la Costituente avesse assolto il suo compito, a sottoporre nuovamente al popolo italiano la scelta sulla forma istituzionale dello Stato.

Il 2 giugno, in un clima di particolare tensione, ebbe luogo la consultazione referendaria. Lo svolgimento del referendum era disciplinato da due decreti legislativi luogotenenziali: il n. 98 del 16/3/46 e il n. 219 del 23/4/46.

Nell’art.2 del primo decreto n.98/1046 era previsto che nel caso in cui “la maggioranza degli elettori votanti” si fosse pronunciata a favore della Repubblica, l’assemblea Costituente, come suo primo atto, avrebbe eletto il Capo provvisorio dello Stato il quale avrebbe esercitato le sue funzioni fino alla nomina del Capo dello Stato, secondo il deliberato della nuova Costituzione. Sempre in quello stesso articolo era scritto che dal giorno della proclamazione dei risultati del referendum e sino alla elezione del Capo provvisorio dello Stato, le relative funzioni sarebbero state esercitate dal presidente del Consiglio dei Ministri in carica nel giorno delle elezioni. Per quanto concerne invece le fasi della proclamazione dei risultati, l’art.17 del secondo decreto legislativo (n.219/1946), stabiliva che la Corte di Cassazione, in pubblica adunanza, presieduta dal Primo presidente e con la partecipazione di 6 presidenti, di 12 consiglieri e l’intervento del Procuratore Generale, avrebbe proceduto alla somma dei voti attribuiti alla Repubblica e di quelli attribuiti alla Monarchia ed avrebbe quindi proceduto alla proclamazione dei risultati del referendum.

Il 10 giugno 1946 il Presidente della Corte di Cassazione, dott. Giuseppe Pagano, non disponendo dei dati definitivi, si limitò a rendere noti i risultati delle votazioni relativi ai 32 collegi elettorali (peraltro incompleti perché mancavano i risultati di oltre 100 sezioni), comunicando che la Repubblica aveva ottenuto 12.718.019 voti, mentre la monarchia 10.709.423 e dichiarò che la Corte, secondo le norme stabilite dall’art.19 del decreto luogotenenziale n.219 del 23 aprile 1946, avrebbe emesso in altra adunanza un successivo giudizio, che sarebbe stato definitivo all’esito delle della decisione sulle contestazioni che erano state presentate dai monarchici, i quali avevano richiesto il riconteggio delle schede giudicate bianche e nulle e una volta acquisiti i risultati delle sezioni ancora mancanti.

Quindi, in parole povere, la Corte di Cassazione aveva rimandato a data successiva la proclamazione.

Dopo la comunicazione della Corte il Presidente del Consiglio dei Ministri del Regno d’Italia Alcide De Gasperi si recò al Quirinale per chiedere al Re di farsi da parte e di iniziare l’iter di trasferimento dei poteri, ma Umberto II, come era precipuo dovere di un Capo dello Stato legale ancora in carica, si oppose con fermezza rifiutando di assecondare la richiesta di De Gasperi, in quanto la Corte di Cassazione aveva rinviato ad un altro momento la proclamazione essendo necessario un nuovo resoconto dei voti, anche alla luce dei numerosi ricorsi che erano stati già proposti e che si stavano proponendo aventi ad oggetto il riconteggio e la valutazione della corretta esclusione delle schede nulle.

E’ quindi evidente che fino a tale passaggio fondamentale e fino alla decisione sui ricorsi, non sarebbe stato possibile il passaggio dei poteri ad un governo provvisorio repubblicano.

L’11 giugno Alcide De Gasperi si incontrò con l’ammiraglio degli Stati Uniti Ellery Stone e con l’ambasciatore britannico Noel Charles rappresentando la volontà della maggioranza del popolo italiano emersa dallo scrutinio ed anche la decisione della Cassazione di non aver voluto dar luogo alla proclamazione. Gli stessi rappresentanti degli Stati Uniti e della Gran Bretagna auspicarono prudenza, anche in considerazione degli scontri tra fazioni che si stavano verificando in quel periodo.

In quei giorni infatti l’Italia appariva divisa tra nord che aveva votato per la repubblica ed il centro, le isole ed il sud che aveva votato per la monarchia e le conseguenze di tale divisione cominciavano a sfociare nel sangue.

Infatti, in Campania la sera del 7 giugno, a Capodimonte, vicino alla chiesa di Sant’Antonio, una bomba lanciata da sconosciuti aveva colpito un gruppo di giovani monarchici reduci da una manifestazione, nello stesso giorno in uno scontro con la Polizia era morto il giovane monarchico Carlo Russo, l’8 giugno in uno scontro con le forze di pubblica sicurezza veniva ucciso il sedicenne monarchico Gaetano d’Alessandro e in una manifestazione monarchica l’11 giugno 1946 a Napoli erano morte ben 9 militanti monarchici.

Lo stesso 11 giugno 1946, intorno alle 13:00, Alcide De Gasperi si recò nuovamente al Quirinale per convincere il Re a trasferirgli i poteri senza attendere l’esito definitivo della Cassazione. Umberto II si oppose ancora una volta con decisione, evidenziando nuovamente che era suo dovere attendere la decisione della Cassazione.

Nuovamente, nel tardo pomeriggio dello stesso giorno, De Gasperi ritornò al Quirinale per sapere se il Re avesse avuto un ripensamento, ma la decisione di Umberto II non subì variazioni.
In tarda serata, il Presidente De Gasperi ebbe numerosi contatti telefonici con gli alleati, con i suoi ministri e con personalità politiche.

Il 12 giugno 1946, il re Umberto II, consegnò al ministro della Real Casa on. le Falcone Lucifero una lettera indirizzata al Presidente del Consiglio dei Ministri.
in cui ribadiva la sua «decisa volontà di rispettare il responso del Popolo italiano espresso dagli elettori votanti, quale risulterà dagli accertamenti e dal giudizio definitivo della Suprema Corte di Cassazione, chiamata per legge a consacrarlo».

Nella tarda serata del 12 giugno, alle 21:00 circa, il Consiglio dei ministri presieduto da Alcide De Gasperi approvò un documento, diramato alle ore 00,15 del 13 giugno, in cui riafferma che « la proclamazione (invero si trattava solo della lettura dei risultati provvisori ndr) dei risultati del referendum … ha portato automaticamente all’instaurazione di un regime transitorio durante il quale … l’esercizio delle funzioni del capo dello Stato spetta ope legis al presidente del Consiglio in carica Alcide De Gasperi».

Completata la ricostruzione cronologica dei fatti e degli eventi si rende necessaria una disamina prettamente giuridica e non più solo storica a seguito della quale non può passare inosservata quella che per usare un eufemismo si può definire una forzatura compiuta dal governo il quale arbitrariamente e in violazione delle previsioni della legge istitutiva del referendum (decreti legislativi luogotenenziali n. 98 del 16/3/46 e n. 219 del 23/4/46), decise che De Gasperi assumesse unilateralmente «l’esercizio delle funzioni» di capo dello Stato.

Per effetto di tale atto rivoluzionario ed illegittimo si verificò che, in attesa della decisione della Corte di Cassazione, che si riconvocò il successivo 18 giugno, contemporaneamente Alcide De Gasperi, che già rivestiva il ruolo di Presidente del Consiglio del Regno d’Italia, assunse anche il potere di Capo dello Stato facente funzioni.

Nel pomeriggio del 13 giugno 1946, Umberto II di Savoia, che a tutti gli effetti rimase Re, sia pure senza un territorio, per evitare un nuovo spargimento di sangue dopo la precedente guerra civile, preferì abbandonare volontariamente il suolo italiano, partendo per il Portogallo, Nazione che divenne poi il luogo del suo esilio definitivo.

Prima della partenza, sciolse i funzionari e militari dal giuramento di fedeltà al Re, non da quello verso la Patria, rivolgendo il suo pensiero a quanti erano caduti nel nome d’Italia ed il suo saluto a tutti gli italiani.

Nello stesso giorno 13 giugno inviò il seguente Proclama alla Nazione:

“Italiani! Nell’assumere la luogotenenza generale del Regno prima, e la corona poi, io dichiarai che mi sarei inchinato al voto del popolo liberamente espresso, sulla forma istituzionale dello stato.

Eguale affermazione ho fatto subito dopo il 2 giugno, sicuro che tutti avrebbero atteso le decisioni della Corte Suprema di Cassazione, alla quale la legge ha affidato la proclamazione dei risultati definitivi del referendum.

Di fronte alla comunicazione di dati provvisori e parziali, fatta dalla Corte suprema; di fronte alla sua riserva di pronunciare, entro il 18 giugno, il giudizio sui reclami, e di far conoscere il numero dei votanti e dei voti nulli; di fronte alla questione sollevata e non risolta sul modo di calcolare la maggioranza, io, ancora ieri, ho ripetuto che era mio diritto e dovere di re attendere che la Corte di Cassazione facesse conoscere se la forma istituzionale repubblicana avesse raggiunto la maggioranza voluta.

Improvvisamente, questa notte, in spregio alle leggi ed al potere indipendente e sovrano della magistratura, il governo ha compiuto un gesto rivoluzionario, assumendo, con atto unilaterale ed arbitrario, poteri che non gli spettano, e mi ha posto nell’alternativa di provocare spargimento di sangue o di subire la violenza.

Mentre il Paese da poco uscito da una tragica guerra vede le sue frontiere minacciate e la sua stessa unità in pericolo, io credo mio dovere fare quanto sta ancora in me perché altro dolore ed altre lacrime siano risparmiate al popolo che già tanto ha sofferto.

Confido che la magistratura potrà dire la sua libera parola; ma, non volendo opporre la forza al sopruso, né rendermi complice della illegalità che il governo ha commesso, io lascio il suolo del mio Paese, nella speranza di scongiurare agli italiani nuovi lutti e nuovi dolori.”

La Corte di Cassazione, dopo aver deciso sulle contestazioni e sui ricorsi, si riunì nuovamente il 18 giugno e rese noti il numero dei voti nulli e lesse i risultati definitivi.

Poiché nell’articolo 2 del Decreto n. 98/46 si faceva riferimento alla “maggioranza degli elettori votanti”, come quorum da prendere in considerazione per la validità dei risultati, la Corte a maggioranza e con il voto contrario del Primo Presidente e del Procuratore Generale, ritenne di interpretare la lettera della legge nel senso di “maggioranza degli elettori che hanno espresso voti validi” (escludendo quindi, nel novero del quorum, le schede nulle e quelle bianche).

Il fatto che qualche cosa di irregolare sia accaduto nella notte tra il 12 ed il 13 giugno 1946 è confermato dalle poche righe pubblicate nella Gazzetta ufficiale n. 144 del primo luglio 1946, in cui si può leggere il comunicato nel quale si dà atto dell’insediamento di De Nicola a Capo provvisorio dello Stato a cui l’onorevole De Gasperi “ha trasmesso i poteri di Presidente della Repubblica da lui esercitati, nella qualità di Presidente del Consiglio, dal giorno (si evita volutamente la data precisa) dell’annuncio dei risultati definitivi del referendum istituzionale”.

Non vi ebbe luogo alcun passaggio di poteri da Umberto II a De Gasperi, non vi fu mai quella fase legittimante il nuovo regime che nel linguaggio tecnico-giuridico viene definita “debellatio” e che è quell’atto formale e pacifico che intercorre fra il Sovrano ed il Popolo con il quale ciascuno per la sua parte, legalmente accetta il nuovo stato delle cose.

Questi sono in estrema sintesi gli avvenimenti convulsi che determinarono l’avvento della Repubblica.

A tanti anni di distanza da tali eventi una ricostruzione dei fatti appare doverosa per il rispetto che ognuno di noi dovrebbe nutrire per la memoria storica, pur nella convinzione che la Repubblica sia una realtà incontestabile e pacifica che non può essere messa in discussione.

Le riserve che sono state espresse sulla regolarità e sulla legittimità della condotta tenuta dai vari attori degli avvenimenti in relazione alle previsioni normative sancite dai decreti che avevano consentito il referendum o plebiscito istituzionale ed alla fase del trapasso del potere hanno un significato e sono utili per comprendere come all’epoca sia stato calpestato un principio che costituisce il fondamento di ogni ordinamento giuridico democratico, quello del rispetto della legge.

Ed è proprio il richiamo ai principi dello Stato di diritto che ci inducono a considerare un’offesa per il nostro ordinamento giuridico la permanenza nel testo della nostra Costituzione della XIII disposizione transitoria in relazione alla quale la legge costituzionale n.1 del 23 ottobre 2002 ha stabilito che «i commi primo e secondo della XIII disposizione transitoria e finale della Costituzione esauriscono i loro effetti a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale».

Ugualmente collide con uno Stato di diritto la previsione di cui all’art. 139 della nostra Carta Fondamentale in cui è scritto che “la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”. Questa norma è in contrasto con l’articolo 1 della Carta che sancisce che solo il popolo è depositario della sovranità.

In estrema sintesi: l’articolo 139 della Costituzione attribuisce allo Stato italiano una forma istituzionale repubblicana perenne, indivisibile e irrevocabile.

Nessuno può alterare il risultato di quel referendum del 2 giugno 1946 in cui gli italiani scelsero di porre fine all’era monarchica per inaugurare la fase repubblicana, né il Parlamento né i cittadini perché l’Italia è una Repubblica e lo sarà a vita.

Sarebbe comunque auspicabile la riapertura di un dibattito storico-giuridico su aspetti ancora oscuri di quegli eventi, anche al solo fine di stabilire, una volta ricostruiti gli avvenimenti, se uno Stato democratico possa porre o meno delle chiusure “per legge” ed in caso affermativo se non sia giusto ripeterle per tutti i diritti fondamentali, come ad esempio il diritto al lavoro, il diritto alla libertà, il diritto alla salute e alla integrità fisica e il diritto alla dignità di ciascuno.

https://archivio.quirinale.it/aspr/presidente/alcide-de-gasperi

https://www.gazzettaufficiale.it/…/1946/05/03/046U0219/sg

https://www.gazzettaufficiale.it/…/1946/03/23/046U0098/sg