Il dissenso trova la sua tutela nel principio pluralistico previsto dall’art.2 Cost., oltre che su tutte le altre libertà che si ricollegano a quella che va considerata la pietra angolare del sistema democratico, cioè la libertà di pensiero (art.21 Cost.) che caratterizzano la Repubblica nel suo complesso e costituiscono la base del carattere democratico del nostro ordinamento.
Da qualche tempo si palesa ad ogni livello sempre con maggiore frequenza una vera e propria violenza dello Stato nei confronti di chi dissente dal pensiero unico dominante diffuso attraverso la propaganda ed il mainstream mediatico.
Da ultimo, abbiamo constatato come a Trieste, come in altre città italiane, lo Stato ha palesato la sua intolleranza violenta e antidemocratica nei confronti di comuni cittadini che manifestavano pacificamente ed educatamente il loro dissenso.
Nell’art.17 Cost. è scritto: «I cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi. Per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso. Delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica.».
L’articolo 18 del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (TULPS) di cui al R.D. 18 giugno 1931, n. 773 dispone: «I promotori di una riunione in luogo pubblico o aperto al pubblico, devono darne avviso, almeno tre giorni prima, al Questore.
L’assenza di preavviso è soltanto produttiva delle conseguenze previste dall’art. 18 T.U.L.P.S. a carico dei promotori i quali potrebbero essere «puniti con l’arresto fino a sei mesi e con l’ammenda da € 103 a € 413» e che alla stessa pena soggiacciano «coloro che prendono la parola», qualora questi siano a conoscenza della violazione dell’obbligo di preavviso. A fronte del mancato preavviso, il Questore ha il potere di vietare lo svolgimento della riunione.
Il Questore, nel caso di omesso avviso ovvero per ragioni di ordine pubblico, di moralità o di sanità pubblica, può impedire che la riunione abbia luogo e può, per le stesse ragioni, prescrivere modalità di tempo e di luogo alla riunione.
L’obbligo per i promotori di riunioni in luogo pubblico di darne il preavviso all’autorità di pubblica sicurezza trova il suo fondamento non tanto nella tutela dell’ordine pubblico, quanto nella necessità di fornire alla polizia una forma di collaborazione.
L’omesso avviso è sanzionato penalmente per i promotori, mentre la mera partecipazione ad una riunione senza preavviso è condotta neutra dal punto di vista penalistico.
L’importanza dei diritti di libera manifestazione del pensiero e di quelli ad esso collegati mal si conciliano però con le limitazioni imposte da leggi, ancora in vigore, che trovavano la loro ragione di essere nell’impianto autoritario dello Stato italiano del ventennio fascista.
In un ordinamento democratico, come è quello fondato sulla Costituzione del 1948, è inquietante che si pretenda di limitare dei diritti fondamentali attraverso il ricorso a preventive autorizzazioni e/o concessioni di polizia.
L’art. 2 TULPS prevede: «Il Prefetto, nel caso di urgenza o per grave necessità pubblica, ha facoltà di adottare i provvedimenti indispensabili per la tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica.
Contro i provvedimenti del Prefetto chi vi ha interesse può presentare ricorso al Ministro per l’interno. »
La citata norma contenuta nell’art. 2 T.U.L.P.S è di per sé inidonea a legittimare un’ordinanza in tema di diritti costituzionali, in quanto il legislatore si è limitato ad individuare la competenza in capo ad un determinato organo (Prefetto) , senza però specificare le condizioni che ne devono accompagnare l’esercizio: in quest’ottica, è pacifico affermare che, per poter incidere su diritti costituzionali, l’ordinanza prefettizia debba essere emanata nel solco di una disciplina di principio rinvenibile nella legislazione primaria, non essendo a tal fine sufficiente una norma ordinaria che si limita ad attribuire una competenza.
Lo svolgimento di una riunione pubblica in violazione del divieto del Questore non può essere, di per sé, motivo di scioglimento della stessa perché il mancato rispetto di tale divieto integra gli estremi di una contravvenzione e non di un delitto e perchè lo scioglimento potrebbe essere disposto solo in presenza di un concreto pericolo per l’ordine pubblico.
L’art. 20 T.U.L.P.S. prevede inoltre: «Quando, in occasione di riunioni o di assembramenti in luogo pubblico, o aperto al pubblico, avvengono manifestazioni o grida sediziose o lesive del prestigio dell’autorità, o che comunque possono mettere in pericolo l’ordine pubblico o la sicurezza dei cittadini, ovvero quando nelle riunioni o negli assembramenti predetti sono commessi delitti, le riunioni e gli assembramenti possono essere disciolti.»
L’art. 21 TULPS prevede che sia sempre considerata manifestazione sediziosa l’esposizione di bandiere o emblemi, che sono simbolo di sovversione sociale o di rivolta o di vilipendio verso lo Stato, il governo o le autorità e che sia manifestazione sediziosa anche la esposizione di distintivi di associazioni faziose.
Prima di procedere allo scioglimento mediante l’uso della forza, è necessario innanzitutto invitare i partecipanti a sciogliere la riunione ed in caso di inosservanza all’invito, si può procedere all’ordine di scioglimento con tre intimazioni di natura formale e soltanto qualora tali intimazioni non abbiano effetto, le autorità possono procedere all’esecuzione dell’ordine attraverso il ricorso alla forza pubblica.
Anche in presenza dei presupposti e delle condizioni per l’applicazione del citato art.20 del T.U.L.P.S., il poliziotto che nel corso dell’esecuzione di un ordine dovesse violare la legge penale risponderà dinnanzi agli organi giurisdizionali a titolo personale ed eventualmente anche in concorso con chi ha emanato un ordine illegittimo.
Il più delle volte accade che i fatti costituenti reato commessi da pubblici ufficiali rimangano impuniti, stante la difficoltà di identificarne gli autori, dal momento che le forze dell’ordine non sono obbligate ad palesare alcun segno identificativo di ciascuno nel corso delle operazioni di ordine pubblico.
Se i singoli agenti e funzionari fossero identificabili anche questo sarebbe un primo passo verso la trasparenza che per un verso mostrerebbe la volontà delle forze di polizia di rispondere delle proprie azioni e per l’altro accrescerebbe la fiducia dei cittadini verso queste ultime.
Alla luce delle riflessioni che precedono, appare chiaro che, all’interno di una moderna democrazia, il rispetto dei diritti fondamentali della persona ed il riconoscimento della libertà di manifestazione del pensiero vanno coniugati, all’unisono, con la salvaguardia delle condizioni minime di libera e pacifica convivenza tra i consociati la cui tutela, se talvolta richiede l’adozione di misure repressive, le stesse devono sempre essere conformate ai principi di proporzionalità e ragionevolezza.
Purtroppo la formazione professionale degli agenti delle forze dell’ordine risente ancora di una impostazione autoritaria, tipica del ventennio fascista ed appare refrattaria alla tolleranza, al riconoscimento dei diritti costituzionali e sovranazionali dei cittadini ed all’adeguamento ad un ordinamento giuridico democratico.
Tale deficit di democrazia andrebbe al più presto colmato, in caso contrario sarà inevitabile, come periodicamente avviene, la riemersione di rigurgiti di passati regimi, di cui si ha ancora memoria e che invece ritenevamo definitivamente archiviati.
Conseguenza inquietante di tale criticità è la violenza spesso brutale ad opera di organi dello Stato, che quella violenza dovrebbero invece contrastare e reprimere.
Per porre fine alle violazioni dei diritti umani che vedono un coinvolgimento delle forze di polizia e riaffermare il ruolo centrale di queste nella protezione dei diritti umani, sarebbe essenziale ed urgente che tutte le discrasie esistenti, soprattutto nel Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (TULPS) di cui al R.D. 18 giugno 1931, n. 773 venissero superate con un adeguamento della normativa alla vigente Costituzione.
Si rispetti dunque con maggiore attenzione e sensibilità umana e democratica ogni cittadino italiano, anche colui che dissente e che viene inquadrato e considerato appartenere ad una minoranza.