Il travagliato percorso della nascita della Repubblica italiana
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Essendo trascorsi ben 77 gli anni dal referendum istituzionale del 2 giugno 1946 è possibile analizzare con il dovuto distacco e senza alcuno spirito polemico, le vicende riguardanti le origini della repubblica.

Il 9 maggio 1946, dopo l’armistizio di Cassibile del 3 settembre 1943, con cui l’Italia dovette accettare obtorto collo una resa incondizionata, in data  29 aprile 1945 veniva firmata con la Germania, presso la Reggia di Caserta, alla presenza di delegati della Gran Bretagna, degli Stati Uniti e di un osservatore dell’Unione sovietica, la resa incondizionata che sancì la fine della campagna d’Italia e la sconfitta definitiva delle forze nazi fasciste, resa divenuta operativa il successivo 2 maggio.

Qualche giorno dopo, il 9 maggio 1946, il vecchio re Vittorio Emanuele III abdicò in favore del figlio, Umberto di Savoia Principe di Piemonte.

Divenuto Capo dello Stato, Umberto II rivolse il suo primo messaggio agli italiani nel quale ribadì quanto già sancito nella sua precedente veste di luogotenente e cioè la sua determinazione di rimettere alla volontà del popolo la decisione sulla forma e sulla nuova struttura dello Stato.

Pochi giorni dopo, nel proclama del 31 maggio, Umberto II, affermò tra l’altro che avrebbe accettato il responso del popolo liberamente espresso, chiedendo ai “fedeli sostenitori della Monarchia” di rispettare anch’essi, senza alcuna riserva, la decisione della maggioranza. Aggiunse inoltre che, in caso in cui avesse prevalso la Monarchia, si sarebbe impegnato, una volta che la Costituente avesse assolto il suo compito, a sottoporre nuovamente al popolo italiano la scelta sulla forma istituzionale di Stato.

Il 2 giugno, in un clima di particolare tensione, ebbe luogo la consultazione referendaria.

Senza entrare in argomento sui paventati brogli elettorali, sulla circostanza che le schede scrutinate erano di gran lunga superiori rispetto a quelle che l’Istat dichiarò esser state distribuite, né sul fatto che non parteciparono al voto i militari prigionieri di guerra nei campi degli alleati e gli internati in Germania, i cittadini italiani residenti  nella provincia di Bolzano, né quelli residenti a Pola, Fiume, Zara e Trieste, in questa sede si procederà ad una disamina dei fatti esclusivamente sotto il loro profilo giuridico.

Lo svolgimento del referendum era disciplinato da due decreti luogotenenziali: il n. 98 del 16/3/46 e il n. 219 del 23/4/46.

https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/1946/03/23/046U0098/sg

https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/1946/05/03/046U0219/sg

Nell’articolo 2 del primo decreto era previsto che nel caso in cui “la maggioranza degli elettori votanti” si fosse pronunciata a favore della Repubblica, l’assemblea Costituente, come suo primo atto avrebbe eletto il Capo provvisorio dello Stato il quale avrebbe esercitato le sue funzioni fino alla nomina del Capo dello Stato, secondo il deliberato della nuova Costituzione.

Sempre quell’articolo prevedeva che dal giorno della proclamazione dei risultati del referendum, e sino alla elezione del Capo provvisorio dello Stato, le relative funzioni sarebbero state esercitate dal presidente del Consiglio dei Ministri in carica nel giorno delle elezioni.

Per quanto concerne invece le fasi della proclamazione dei risultati, l’articolo 17 del secondo decreto legislativo, stabiliva che la Corte di cassazione, in pubblica adunanza, presieduta dal primo presidente e con la partecipazione di 6 presidenti, di 12 consiglieri e l’intervento del Procuratore Generale, avrebbe proceduto alla somma dei voti attribuiti alla Repubblica e di quelli attribuiti alla Monarchia ed avrebbe quindi fatto la proclamazione dei risultati del referendum.

Il 10 giugno 1946, la Corte di Cassazione, non disponendo dei dati definitivi, si limitò a rendere noti i risultati delle votazioni relativi ai 32 collegi elettorali (peraltro incompleti perché mancavano i risultati di oltre 100 sezioni), che risultarono i seguenti: la Repubblica ebbe 12 milioni 672 mila 767 voti, mentre la Monarchia ne riportò 10 milioni 688 mila 905.

La Corte, non potendo fare altro si riservò di emettere in una successiva adunanza il giudizio definitivo sul risultato per procedere poi all’effettiva proclamazione dello stesso, dopo aver deciso sui reclami, sulle contestazioni e dopo aver preso atto del numero complessivo dei votanti, tenuto conto dei dati relativi alle sezioni mancanti e ai voti nulli.

Senza attendere la nuova riunione della suprema Corte e quindi in assenza della proclamazione dei risultati, nella notte fra il 12 ed il 13 giugno si riunì il Consiglio dei Ministri che con decisione illegittima, nominò Capo provvisorio dello Stato De Gasperi, il quale già ricopriva le funzioni di Presidente del Consiglio. 

La Corte di Cassazione si riunì nuovamente soltanto il successivo 18 giugno 1946, alle ore 18:00, rese noti il numero dei voti nulli e proclamò i risultati definitivi, dopo aver deciso sulle contestazioni e sui ricorsi.

Poiché nell’articolo 2 del Decreto n. 98/46 si faceva riferimento alla “maggioranza degli elettori votanti”, come quorum da prendere in considerazione per la validità dei risultati, la Corte a maggioranza e con il voto contrario del Primo Presidente e del Procuratore Generale, ritenne di interpretare la lettera della legge nel senso di “maggioranza degli elettori che hanno espresso voti validi” (escludendo quindi, nel novero del quorum, le schede nulle e quelle bianche).

La prova che De Gasperi usurpò illegittimamente ed illecitamente i poteri di capo dello Stato in violazione dell’art.287 cod.pen. lo si rileva proprio dalla lettura della Gazzetta Ufficiale n.144 del 01/07/1946 dove vi è scritto che in quella stessa data l’on. le De Gasperi ha trasmesso a De Nicola i poteri esercitati dal giorno dell’annuncio dei risultati definitivi, quindi dal 18/06/18.

Ciò sta a significare che i poteri furono esercitati abusivamente, illegittimamente ed illecitamente dal 12/06/46 al 18/06/1946.

Si legge nella  Gazz. Uff. ed. str., 1 luglio 1946: “Presidenza del Consiglio dei Ministri. Insediamento del Capo provvisorio dello Stato. Oggi alle ore 13 in una sala di Montecitorio ha avuto luogo l’insediamento del Capo provvisorio dello Stato On. Enrico De Nicola, al quale l’On. De Gasperi ha trasmesso i poteri di Presidente della Repubblica da lui esercitati, nella sua qualità di presidente del Consiglio, dal giorno dell’annuncio dei risultati definitivi del referendum istituzionale. Alla cerimonia di insediamento assistevano il Presidente dell’Assemblea Costituente On. Saragat con i vice presidenti Terracini, Micheli, Conti e Pecorari, tutti i ministri, l’ultimo presidente della Camera On. Orlando e l’ex presidente della Consulta Nazionale on. Sforza”.  

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Di fronte a tale atto illegittimo e rivoluzionario Re Umberto II, nel pomeriggio del 13 giugno 1946, decise di lasciare il territorio italiano al fine di “non provocare spargimento di sangue” e “nella speranza di scongiurare agli italiani nuovi lutti e nuovi dolori” e lo fece senza abdicare, lasciando un ultimo messaggio nel quale denunciava l’arbitrarietà della decisione assunta dal Consiglio dei ministri e la palese violazione della legge.https://www.filodiritto.com/proclama-di-umberto-ii-re-ditalia

Infatti la proposizione di un ricorso avrebbe allungato i tempi di proclamazione della parte vincitrice ed avrebbe esposto il Paese al pericolo di una nuova guerra civile, proprio per l’esistenza di una netta frattura della popolazione fra monarchici e repubblicani.

Non vi fu un regolare passaggio dei poteri, non vi fu mai quella fase legittimante il nuovo regime che nel linguaggio tecnico-giuridico si definisce debellatio, consistente in quell’atto formale e pacifico che intercorre fra il Sovrano ed il popolo con il quale ciascuno per la sua parte legalmente accetta il nuovo stato delle cose.

Questi i fatti storici che suscitano qualche perplessità in relazione all’iter procedimentale adottato per consentire la nascita della repubblica, ma che non possono modificare la realtà delle cose in quanto in ogni caso, indipendentemente dalle polemiche e dagli eccessi che all’epoca divisero ancora una volta gli Italiani tra fautori di una delle due forme istituzionali oggetto di referendum, una monarchia costituzionale e parlamentare moderna non può sopravvivere se non gode del consenso generale del suo popolo.

Ovviamente il decorso del tempo rende incontestabile il consolidamento di una repubblica nata in maniera irregolare ed in violazione di alcuni passaggi giuridici che sarebbero stati necessari per consacrarne la piena legittimità.

Quello che si vuole mettere in risalto è un principio che indubbiamente è stato calpestato, ed è quello del rispetto della legge e del diritto che non può essere, sin troppo semplicisticamente giustificato, come spesso si tende a fare, dall’eccezionalità e dalla gravità degli eventi.

Ed è proprio il richiamo ai principi dello Stato di diritto che ci inducono a considerare un’offesa per il nostro ordinamento giuridico ed una palese limitazione dell’esercizio della sovranità popolare la previsione contenuta nell’art. 139 della nostra Carta fondamentale (la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale).

Di questo si accorse sin dalle prime ore un gran numero di deputati dell’assemblea Costituente che insorsero contestandola.

Questa norma finale della Costituzione infatti mal si concilia con un ordinamento democratico, in quanto è in contrasto con l’articolo 1 della Carta che sancisce che solo il popolo è il depositario della sovranità e perché una forma istituzionale non dovrebbe essere imposta, né diventare perpetua, a meno che la stessa definitività non sia prevista a tutela dei diritti fondamentali.

Osservò a tale proposito Piero Calamandrei che l’immutabilità della forma repubblicana creava una terza categoria di leggi, quelle c19460701_144_90he non si sarebbero potute giuridicamente modificare nemmeno attraverso metodi più complicati che la Costituzione stessa stabilisse perla revisione.

In tale terza categoria di leggi, secondo la visione di Calamandrei, si sarebbero dovute introdurre quelle a difesa dei diritti fondamentali di libertà, …”se la nostra Costituzione ha adottato questa misura di immutabilità per la forma repubblicana, credo che dovrà adottare questa stessa misura anche per le norme relative ai diritti di libertà”, ma purtroppo non è stato così ed è rimasta unicamente una macchia nella nostra Costituzione che mette in discussione anche il grado di democraticità.

Ma questa è ormai storia vecchia, il dibattito, ancora attuale, può essere semmai riaperto con serenità su basi scientifico-giuridiche.

Una di queste potrebbe essere costituita dal seguente quesito: uno Stato democratico può porre chiusure “per legge” al di fuori di quelle, ancora inesistenti, a salvaguardia dei diritti fondamentali?