L’ordinanza emessa dalla Sezione Immigrazione del Tribunale di Roma con cui non è stato convalidato il trattenimento dei migranti nel centro italiano di permanenza di Gjader, in Albania, pur suscitando non poche perplessità, rende necessaria qualche iniziativa che ponga fine ad uno scontro istituzionale intollerabile per uno Stato di diritto.
Il provvedimento del Tribunale di Roma ha riguardato dieci migranti provenienti dal Bangladesh e sei dall’Egitto trasportati in Albania dalla nave “LIBRA”, Pattugliatore d’altura, seconda unità della classe “Cassiopea” della Marina Militare Italiana.
Il Tribunale ha affermato: “I due Paesi da cui provengono i migranti, Bangladesh ed Egitto, non sono sicuri, anche alla luce della sentenza della Corte di giustizia“.
Per i giudici di quel Tribunale il diritto di libertà dei migranti potrà essere riacquisito solo in Italia e per questo è stato disposto che siano trasferiti nel nostro territorio con la seguente motivazione:
“diniego della convalida dei trattenimenti nelle strutture ed aree albanesi, equiparate alle zone di frontiera o di transito italiane, è dovuto all’ impossibilità di riconoscere come ‘paesi sicuri’ gli Stati di provenienza delle persone trattenute, con la conseguenza dell’inapplicabilità della procedura di frontiera e, come previsto dal Protocollo, del trasferimento al di fuori del territorio albanese delle persone migranti, che hanno quindi diritto ad essere condotte in Italia”.
Al di là delle determinazioni del Tribunale di Roma Sezione Immigrazione, resta da affrontare la problematica dell’immigrazione irregolare.
Come è ormai a tutti noto, sono le organizzazioni malavitose internazionali ad occuparsi del trasporto degli esseri umani provenienti prevalentemente dagli Stati africani e dal medio oriente. Si tratta di un trasporto terrestre fino alle coste del nord Africa, in genere quelle libiche e poi marittimo su navi madri delle stesse organizzazioni, le quali trasportano i migranti oltre le acque territoriali libiche per trasbordarli poi su piccole e precarie imbarcazioni da cui vengono trasbordati ancora una volta su navi delle ONG o su navi della Marina Militare Italiana allertate per quello che impropriamente viene definito “salvataggio in mare di persone”.
Il risultato della caparbia determinazione dei buonisti che si sono avvicendati al governo del Paese di lasciare i porti aperti è che da tempo chiunque vuole entrare in Italia può farlo senza problemi.
La questione dell’ingresso indiscriminato di migranti senza alcuna distinzione tra profughi ed aventi diritto alla protezione internazionale, migranti che per ragioni economiche e climatiche si spostano per trovare in Italia migliori condizioni di vita e clandestini non identificati, né identificabili e quindi irregolari, comporta l’insorgenza di gravi problemi di ordine sanitario e soprattutto di ordine pubblico, nel momento in cui, rafforzando l’esercito della malavita già organizzata, si radicano nelle piazze, nei centri storici delle città italiane e nelle loro periferie.
Allo scopo di reprimere una diffusa illegalità, che accompagna il fenomeno dell’immigrazione, è stato infatti introdotto il Testo Unico 286/98, integrato poi da alcune modifiche approvate con la Legge n.189/2002,) contenente la disciplina dell’immigrazione e delle condizioni degli stranieri.
In tale normativa sono previste le ipotesi di reato, tra cui quello del favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, che hanno reso penalmente rilevanti ogni attività parassitaria e lucrativa e intendono colpire in maniera più diretta l’attività svolta dalle organizzazioni criminali dedite al traffico degli stranieri sia in Italia che all’estero.
Le modificazioni apportate con la legge 189/02 hanno accentuato il carattere di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica capovolgendo la precedente visione solidaristica-umanitaria in una diversa, di natura repressiva (Cass. Pen., sez III, sent. n. 3162/03).
La disciplina del favoreggiamento dell’immigrazione clandestina distingue due ipotesi di reato: quella semplice e quella aggravata.
Il primo comma dell’art. 12 del T.U. 286/98 come modificato dalla L. 189/2002 prevede il favoreggiamento dell’ingresso clandestino con riferimento alle ipotesi semplici, la cui condotta tipica consiste nel compiere “atti diretti a procurare l’ingresso nel territorio dello Stato di uno straniero ovvero atti diretti a procurare l’ingresso illegale in altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente”.
Con tale previsione si mira a contrastare il passaggio di clandestini dal territorio nazionale verso altri Paesi della comunità europea al fine di raggiungere la destinazione finale del loro illegale progetto migratorio, realizzato appunto grazie all’illecita condotta di favoreggiamento degli organizzatori dei viaggi clandestini.
La struttura del reato previsto dalla norma è di mera condotta ed a forma libera: non è necessario il verificarsi di alcun evento, non è necessario che l’ingresso clandestino debba realizzarsi; per il perfezionamento della fattispecie è sufficiente il fatto di aver posto in essere un’attività diretta realizzare l’arrivo dello straniero.
Il reato si perfeziona con il dolo, inteso quale coscienza e volontà di commettere atti di agevolazione dell’ingresso; si tratta poi di un reato di pericolo, in quanto per la punibilità del fatto non è necessario che si verifichi in concreto alcun danno.
Inoltre trattasi di tipica ipotesi di reato a consumazione anticipata, che non consente la configurazione del tentativo.
Come ha avuto modo di chiarire la Corte di Cassazione (sentenza n. 7045 Sez. I, 19 maggio 2000), “in tema di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, per attività dirette a favorire l’ingresso degli stranieri nel territorio dello Stato in violazione della legge non devono intendersi soltanto quelle condotte specificamente mirate a consentire l’arrivo e lo sbarco degli stranieri, ma anche quelle, immediatamente successive a tale ingresso, intese a garantire la buona riuscita dell’operazione ….e, in genere, tutte quelle attività di fiancheggiamento e di cooperazione con le attività direttamente e in senso stretto collegabili all’ingresso dei clandestini”.
Per quanto riguarda, invece, l’ipotesi aggravata del delitto di favoreggiamento dell’ingresso clandestino, accanto a quella contemplata dall’art. 12 comma 3, la L. 189/2002 ne aggiunge delle altre, rispettivamente con i commi 3-bis, 3-ter, 3-quter e 3-quinquies, espressamente qualificate dalla giurisprudenza della Cassazione come circostanze aggravanti ad effetto speciale (Cass. Sez. I, sentenza n.5360/00), di cui cioè la variazione penale è determinata in modo indipendente dalla sanzione edittale di base.
La prima delle ipotesi aggravate, quella dell’art. 12 comma 3, sancisce che: “salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarre profitto anche indiretto, compie atti diretti a procurare l’ingresso di taluno nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni del presente testo unico, ovvero a procurare l’ingresso illegale in altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente, è punito con la reclusione da quattro a dodici anni e con la multa di 15.000 euro per ogni persona”.
La fattispecie, costruita anch’essa con l’iniziale clausola di riserva, prevede, in aggiunta, il dolo specifico “di trarne profitto”; questo fine è inteso non solo ed esclusivamente in senso di utilità pecuniaria, cioè quale vantaggio economico o incremento del patrimonio, ma anche come qualunque soddisfazione o piacere che l’agente si riprometta dalla sua azione criminosa.
La stessa pena stabilita per l’ipotesi di favoreggiamento al fine di trarne profitto, si applica anche “quando il fatto è commesso da tre o più persone in concorso tra loro o utilizzando servizi internazionali di trasporto ovvero documenti contraffatti o alterati o comunque illegalmente ottenuti”.
Il territorio italiano, sia per la sua vicinanza con i Paesi extraeuropei dell’area balcanica, sia per i suoi collegamenti diretti via mare con Paesi del nord Africa e del Medio Oriente, sia perché si presenta come meta di transito verso altri Stati, è ormai da tempo coinvolto da un crescente fenomeno di immigrazione clandestina, essendo ormai sufficientemente provato che l’Italia viene utilizzata come corridoio per l’ingresso illegale in Europa di clandestini con l’aiuto di numerose organizzazioni di ogni genere dedite al traffico, a fine di lucro.
Senza sottacere che in genere non si è in presenza di “salvataggi di persone”, come comunemente viene comunicato dai media, ma semplicemente di “trasbordi” dalle piccole imbarcazioni, dove in precedenza erano stati trasbordati, subito l’uscita dalle acque territoriali libiche, dalle navi madri appartenenti a chi aveva organizzato il trasporto, sulle navi delle ONG che poi proseguono il viaggio per il trasporto degli esseri umani fino ai porti italiani.
Peraltro, si ha notizia che i “soccorritori” percepiscono anche dei compensi per il salvataggio delle persone, laddove per il nostro codice della navigazione (art.493) e per la Convenzione internazionale sul salvataggio fatta a Londra in data 28 aprile 1989 e ratificata dall’Italia con legge n.129 del 12/04/1995 (art.16 n.1) non si avrebbe diritto ad alcun compenso in caso di salvataggio di persone, a meno che, per la sola legge italiana, l’ammontare sia coperto da assicurazione.
Di fronte a questo scenario, per ragioni di ordine pubblico e di sicurezza nazionale ogni governo, nel rispetto della legge vigente avrebbe dovuto adottare maggiore fermezza in materia di immigrazione clandestina, al fine di contrastare efficacemente il fenomeno del commercio di esseri umani e perseguire, con il fattivo ausilio della Magistratura, chiunque partecipi a quello che ormai è divenuto un vero e proprio business più remunerativo di qualsiasi altra attività illecita gestita dalle organizzazioni malavitose.
Naturalmente, dal momento che il 5 comma dell’art.12 punisce l’agevolazione dell’abusivo soggiorno per trarre ingiusto profitto, non incorrerà in sanzione colui che aiutando un clandestino, a maggior ragione se versi in stato di bisogno, dimostri di aver agito senza fini di lucro ossia aver di agito per semplice spirito umanitario.
In conclusione, questo obiettivo potrà essere realizzato affiancando allo strumento della prevenzione un incisivo strumento penale.
In questa ottica le modifiche apportate dalla Legge 189/2002 al T.U. 286/98 rispondono sia all’esigenza di garantire il rispetto dell’ordine pubblico, ma anche a quella di combattere il deprecabile fenomeno dello sfruttamento di esseri umani, atteso che i migranti trasportati versano in condizioni di bisogno e di subalternità e di questo status approfittano subdolamente soggetti privi di scrupoli che agiscono solo in base alla esclusiva logica del loro illecito profitto.
Inoltre la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare firmata a New York il 10 dicembre 1982 e ratificata dall’Italia nel 1994 stabilisce punto 1: “il passaggio di una nave è inoffensivo fintanto che non arreca pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero.
Tale passaggio deve essere eseguito conformemente alla presente Convenzione e alle altre norme del diritto internazionale”.
Al punto 2 la suddetta convenzione statuisce: “il passaggio di una nave straniera è considerato pregiudizievole per la pace, il buon ordine e la sicurezza dello Stato costiero se, nel mare territoriale, la nave è impegnata in una qualsiasi delle seguenti attività: a) minaccia o impiego della forza contro la sovranità, l’integrità territoriale o l’indipendenza politica dello Stato costiero, o contro qualsiasi altro principio del diritto internazionale enunciato nella Carta delle Nazioni Unite… omissis….g) il carico o lo scarico di materiali, valuta o persone in violazione delle leggi e dei regolamenti doganali, fiscali, sanitari o di immigrazione vigenti nello Stato costiero;”.
Dunque, se si sospetta che la nave stia violando le leggi sull’immigrazione italiane, il diritto internazionale consente alle autorità italiane di impedire l’accesso della nave nelle acque territoriali, l’approdo nei suoi porti e lo sbarco di immigrati clandestini.
Inoltre l’art.83 del codice della navigazione attribuisce al Ministro dei trasporti e della navigazione la facoltà ed il potere di limitare o vietare il transito e la sosta di navi mercantili nel mare territoriale, per motivi di ordine pubblico e di sicurezza della navigazione.
I porti possono essere chiusi a un’imbarcazione per un possibile e/o potenziale rischio per la sicurezza nazionale, come è previsto dall’articolo 33 comma secondo dello Statuto dei Rifugiati (Convenzione di Ginevra) in cui è scritto testualmente: “2 La presente disposizione non può tuttavia essere fatta valere da un rifugiato se per motivi seri egli debba essere considerato un pericolo per la sicurezza del paese in cui risiede oppure costituisca, a causa di una condanna definitiva per un crimine o un delitto particolarmente grave, una minaccia per la collettività di detto paese”.
La condizione di rifugiato è definita dalla convenzione di Ginevra del 1951 (trattato delle Nazioni Unite, recepita nella legge n.722 del 1954) in cui nell’articolo 1 si legge che il rifugiato è una persona che “temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o opinioni politiche, si trova fuori del paese di cui ha la cittadinanza, e non può o non vuole, a causa di tale timore, avvalersi della protezione di tale paese”.
Ovviamente nei confronti di profughi, rifugiati e soggetti che beneficiano di protezione internazionale il regime giuridico è differente.
Dal punto di vista giuridico-amministrativo è una persona cui è riconosciuto lo status di rifugiato perché se tornasse nel proprio paese d’origine potrebbe essere vittima di persecuzioni. Per persecuzioni s’intendono azioni che, per la loro natura o per la frequenza, sono una violazione grave dei diritti umani fondamentali, e sono commesse per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a un determinato gruppo sociale.
Al reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina non può non essere collegato quello di associazione per delinquere che riguarda gli scafisti, coloro che operano il trasbordo degli immigrati irregolari per trasportarli nei porti italiani e quindi anche legali rappresentanti delle ONG, proprietari delle navi, armatori e/o vettori delle stesse, comandanti delle navi che dopo il trasbordo hanno eseguito il trasporto in Italia e, ovviamente, tutti coloro che a vario titolo hanno responsabilità ed autonomi poteri decisionali.
Il delitto di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, come quello di associazione per delinquere sono entrambi perseguibili d’ufficio e conseguentemente, stante il principio della obbligatorietà dell’azione penale sancito dall’art. 112 della Costituzione, in cui vi è scritto: “Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”, ogni pubblico ministero che riceva la “notitia criminis” dovrà promuovere l’azione penale contro i responsabili, nessuno escluso ed eccettuato.
Si deve evidenziare che l’avvio dell’azione penale non è soggetto alla scelta discrezionale del pubblico ministero.
Infatti quest’ultimo, in base all’art. 335 c.p.p., deve iscrivere immediatamente, nell’apposito registro custodito presso l’ufficio, ogni notizia di reato che gli perviene o che ha acquisito di propria iniziativa nonché, contestualmente o dal momento in cui risulta, anche il nome della persona alla quale il reato stesso è attribuito.
L’art.328 codice penale, sotto il titolo Rifiuto di atti di ufficio. Omissione così recita:
“Il pubblico ufficiale, o l’incaricato di un pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni.
Fuori dei casi previsti dal primo comma, il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l’atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a euro 1.032. Tale richiesta deve essere redatta in forma scritta e il termine di trenta giorni decorre dalla ricezione della richiesta stessa.” (1)
(1) Il presente articolo è stato così modificato dall’art. 16, L. 26.04.1990, n. 86.
Tale norma ha lo scopo di punire l’inerzia di quei pubblici ufficiali, o pubblici dipendenti, che si rifiutino o omettano di esercitare i doveri del loro ufficio.
Il rifiuto di atti d’ufficio è un reato che si consuma quando un pubblico ufficiale o un dipendente pubblico rifiuta di esercitare una sua mansione, sia a seguito di un ordine del suo superiore, che in presenza di una situazione che richiede, per legge, un’immediata reazione.
Il reato si perfeziona allorché vi è un rifiuto non adeguatamente motivato.
L’omissione di atto d’ufficio si configura invece a fronte di una mancata iniziativa e non a fronte di un esplicito e diretto diniego.
Secondo la S.C., ai fini dell’integrazione della fattispecie di cui al primo comma dell’art. 328 c.p., è sufficiente un’inerzia omissiva, non essendo necessario un rifiuto esplicito (Cass. n. 10051/2013; n. 2339/1998), mentre l’ipotesi di cui al secondo comma si integra con l’omissione e la mancata risposta sui motivi della stessa (Cass. n. 11877/2003). Il delitto in esame, infine, può essere integrato anche laddove manchi una richiesta o un ordine, nell’ipotesi in cui il fatto concreto faccia apparire il compimento dell’atto quale necessario o urgente (Cass. n. 4995/2010; n. 1757/2006).
Auspico pertanto che i nostri pubblici ministeri adempiano puntualmente, senza esitazione o preoccupazione a quelli che sono precisi doveri del loro ufficio, se ciò avverrà confermeranno il ruolo autonomo, indipendente ed autorevole della Magistratura, che un tempo era vanto della nostra Italia.
Lo strumento legislativo esiste, i doveri di ciascuno di noi sono consacrati in precise norme giuridiche e pertanto, come affermò il valoroso Magistrato che rispondeva al nome di Giovanni Falcone, “Occorre compiere fino in fondo il proprio dovere, qualunque sia il sacrificio da sopportare, costi quel che costi, perché è in ciò che sta l’essenza della dignità umana.”
Se poi si vuole evitare ogni violazione di legge e scongiurare un eventuale scontro istituzionale tra i poteri dello Stato, non resta altro che abrogare la legge sul delitto di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e la norma del codice penale che prevede il reato di associazione per delinquere, organizzare un servizio di trasporto marittimo in favore dei migranti i quali, una volta identificati, potrebbero essere smistati sul territorio a seconda delle richieste di manodopera e di possibilità di impiego.