Riflessioni sulla archiviazione del procedimento contro l’ex ministro della Salute Roberto Speranza
il declino dello Stato di diritto

Il Tribunale dei ministri di Roma il 4 aprile scorso ha archiviato un procedimento a carico dell’ex ministro della Salute Roberto Speranza, promosso a seguito di numerose denunce inoltrate da cittadini e da associazioni connesse agli eventi avversi, anche letali, verificatisi nel corso della campagna di vaccinazione durante l’emergenza pandemica di COVID-19.

Il Tribunale dei ministri, istituito con legge costituzionale n.1 del 16 gennaio 1989, come è noto, è una sezione specializzata del Tribunale ordinario che viene costituita presso ogni Corte d’Appello, a cui compete giudicare i reati commessi dai Ministri o dal Presidente del Consiglio.

Esso è un organo collegiale, di cui fanno parte tre membri effettivi e tre supplenti in possesso, da almeno cinque anni, della qualifica di magistrato di Tribunale o superiore ed è presieduto dal magistrato con funzioni più elevate, o più anziano d’età.

I componenti del Tribunale dei Ministri restano in carica due anni e quando qualcuno di loro viene meno per scadenza dell’incarico o impedimento, si procede alla immediata integrazione.

Il procedimento quando vengono depositate denunzie, referti o rapporti che riguardano reati ministeriali, che vengono trasmessi senza indugio al Procuratore della Repubblica del Tribunale del capoluogo del Distretto di Corte d’Appello competente per territorio.

Ricevuti atti e documentazione, il Pm non ha il compito di indagare, ma deve limitarsi a verificare che trattasi di reati ministeriali e limitarsi a trasmettere il tutto entro il termine ordinatorio di 15 giorni al Tribunale dei Ministri, dandone contestuale comunicazione ai soggetti interessati, al fine di consentire loro di depositare memorie, o chiedere di essere ascoltati.

Detto Tribunale, dopo aver ricevuto gli atti e la documentazione agli stessi allegata, compie le dovute indagini, si interfaccia con il Pm e nel termine, sempre ordinatorio, di 90 giorni può archiviare il procedimento con decreto non impugnabile o restituire al Procuratore della Repubblica gli atti, accompagnati da una relazione motivata affinché quest’ultimo, a sua volta, chieda l’autorizzazione a procedere alla Camera di appartenenza.

Mi astengo da ogni commento in ordine alle motivazioni che hanno indotto il Tribunale dei Ministri a decidere di archiviare il procedimento a carico dell’ex ministro della Salute, pur non omettendo di osservare che da quando la Corte Costituzionale decidendo su questioni collegate all’emergenza sanitaria, ha introdotto il principio innovativo, ma inquietante che le sue decisioni possono essere adottate applicando la scienza, quella ufficiale e non il diritto, anche le decisioni dei nostri magistrati si stanno allontanando sempre di più dalla mera applicazione della legge e delle regole del diritto, creando un vuoto tra i cittadini e le istituzioni in materia di giustizia.

Guardando le cose al di fuori delle risultanze processuali, i cittadini italiani stanno assistendo a continui eventi avversi e a decessi per improvvisi malori che i media non riescono più a nascondere, anche se non vengono disposti gli esami autoptici per accertare il nesso di causalità tra vaccinazioni e le morti improvvise.

In un Paese normale sarebbero state eseguite le autopsie fin dai primi decessi improvvisi, ma in Italia questo non è avvenuto e non avviene.

La fattispecie sotto gli occhi di tutti rientra nella configurazione del delitto di strage, reato previsto dall’art.422 del vigente codice penale, reato che non è soggetto ad alcuna prescrizione.

La condotta commissiva richiesta ai fini della configurabilità di tale delitto contro la pubblica incolumità consiste nell’aver posto in essere atti pericolosi in concreto per la pubblica incolumità e addirittura non è neanche necessario il verificarsi della morte di uno più persone.

Il legislatore ha, infatti, costruito il delitto di strage come un reato di pericolo anticipando la soglia della tutela alla fase anteriore a quella dell’effettiva compromissione del bene tutelato. Da qui, l’inammissibilità del tentativo e qualora gli atti posti non siano tali da rientrare nell’art. 422 c.p., residueranno le singole ipotesi di reato (es. omicidio, volontario, preterintenzionale o colposo).

L’elemento soggettivo richiesto ai fini dell’imputazione del reato di strage consiste nella volontà coscienza di compiere atti diretti a mettere in pericolo la vita e l’integrità della collettività, con la possibilità e prevedibilità che dal fatto derivi la morte di una più persone e può essere commesso mediante azione od omissione.

Tutti i delitti contro l’incolumità pubblica sono contraddistinti dalla diffusività del danno, che deve essere tale da minacciare un numero indeterminato di persone, non individuabili a priori. In buona sostanza il reato di strage si realizza con il verificarsi del pericolo per la pubblica incolumità, che ne costituisce l’evento, mentre la morte di una o più persone è una circostanza aggravante, ed influisce esclusivamente sul quantum di pena.

Difatti, sebbene la formulazione della norma, “chiunque compia atti”, sembri presumere necessariamente un comportamento attivo, l’art. 40 c.p. al comma 2 prevede espressamente che “Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”.

Affinché sia configurabile il delitto di strage con condotto omissiva, è necessario che il soggetto agente abbia un obbligo giuridico di impedire l’evento e nel caso in questione quell’obbligo esisteva.

Solo dei magistrati coraggiosi potrebbero ribaltare le cose e si sentirebbe un tintinnio di manette più assordante di quello che si percepiva all’inizio degli anni novanta all’epoca del pool di “mani pulite”, quando dei magistrati, forti del consenso di giustizialisti di ispirazione talebana, assicurarono alla giustizia dei pericolosissimi criminali cui veniva addebitato il gravissimo reato di “aver preso soldi per il partito”.

All’epoca venne addirittura restaurato il sistema penale medioevale inquisitorio, in cui però la tortura corporale fu sostituita dalla carcerazione preventiva.

Ogni indagine era retta dal singolare teorema accusatorio consistente nel fatto che chiunque rivestiva nel partito posizioni apicali “non poteva non sapere”.

E fu così che un’intera classe politica, che certamente avrà avuto i suoi demeriti e le sue responsabilità, ma aveva comunque guidato nel bene e nel male la nostra Nazione per oltre 46 anni, con grande capacità, esperienza e visione di insieme a medio e lungo termine, venne eliminata e furono conservati soltanto partiti e movimenti politici marginali ed i postcomunisti che nel frattempo avevano cambiato il nome (PDS) e l’ideologia (neoliberismo mondialista aperto alla globalizzazione senza regole).

Mi chiedo dove siano oggi i magistrati e di quanto coraggio gli siano dotati, dal momento che, giunti ad un certo livello di indagini, come ha dichiarato il dott. Nicola Gratteri, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli, “per non rischiare la carriera e la stessa vita” preferiscono fermarsi e far finta di niente.

Avviene infatti che al giorno d’oggi, pur in presenza di sufficienti prove e di indizi gravi, univoci, precisi e concordanti, i magistrati italiani sempre più spesso preferiscono non promuovere l’azione penale nei confronti di chi, con improntitudine e certezza dell’impunità, ha violato e continua a violare la legge penale.

Sarebbe molto importante e significativo per la tenuta del nostro sistema che i magistrati italiani, nel rispetto del principio di legalità, che è un principio cardine di tutti gli ordinamenti democratici e degli stati di diritto, promuovessero, tutte le azioni penali necessarie, applicando senza esitazione le leggi vigenti, anche se gli indagati rappresentano dei poteri economicamente forti, oppure sono protetti da potenti lobby.

E’ questo quello che si aspetta dalla magistratura il cittadino comune che deve poter credere sempre nella giustizia uguale per tutti e nel rispetto delle leggi vigenti nel nostro Stato ed ha bisogno di esempi, di rigore e di autorevolezza da parte di chi è preposto a particolari delicate funzioni pubbliche.